Tutte le cose che vorrei dirti.

Vorrei dirti che nella vita le cose diventano difficili prima di essere facili. E non diventano nemmeno realmente facili: sei tu che diventi più brava…

Non c’è bisogno di crescere.

Life ·

P. ha la mia stessa età, ha lasciato la sua famiglia a diciotto anni per andare a studiare in un’Università americana come fanno tutti gli americani (e molti italiani, i cosiddetti fuorisede, che non sanno di essere molto fortunati). Prima di farlo però ha deciso di passare alcuni mesi tra la fine del liceo e l’inizio dell’Università a viaggiare , in parte con i soldi messi da parte con lavori part-time, in parte finanziato dai genitori.

Insieme ad un’amica coetanea ha studiato nei dettagli un piano low cost per girare l’Europa, e in tre mesi ha esplorato Portogallo, Spagna, Italia, Francia, Germania, Olanda e Uk. A un certo punto hanno finito i soldi, quindi si sono fermate a Londra a lavorare come cameriere per alcune settimane.

Tornate a casa con mirabolanti avventure (e disavventure) da raccontare, hanno poi fatto le valigie, si sono trasferite all’Università distante svariate centinaia di km. da casa e oggi una di loro, P. vive qui a Londra e fa la designer freelance.

E. invece ha fatto il Liceo in una cosiddetta ‘Boarding School’, quello che noi chiameremmo erroneamente un College. Insomma, un liceo dove si vive, abita, dorme, si frequentano le lezioni di giorno e i corsi di teatro, o arte, o sport nel pomeriggio, e ‘se hai un problema con una materia l’insegnante è sempre lì quindi vi vedete, che ne so, dopo cena o la mattina prima della scuola’. Si torna a casa un paio di weekend a trimestre, inizia dagli undici anni.

Mentre la ascolto raccontare di storie alla Hogwarts, amicizie indissolubili ed esperienze impagabili, ricordo mia madre usare il ‘guarda che ti mando in un collegio svizzero’ come una minaccia.

Io sono rimasta a casa coi miei per troppi anni, semplicemente perché abitavo in una città dove c’erano le Università (e quindi che bisogno hai di spostarti?) e gli affitti avevano prezzi alti rispetto a costo zero di casa mia (e quindi che bisogno hai di spostarti?).

Inoltre è un po’ un motto della mamma italiana questo ‘che bisogno hai di spostarti?’ come se spostarsi fosse un male, anzi un torto inflitto al genitore anziché un modo per esplorare il mondo – o anche solo il proprio Paese, un altro quartiere, o una nuova sfaccettatura di sé stessi.

Questa mancanza del bisogno di diventare indipendente presto, di contare sulle mie forze e avere del tempo/spazio autonomo per misurarmi con me stessa, mi ha pesato addosso per molto tempo. Lo sentivo come un difetto imposto anche quando tutti i miei amici legittimavano la mia vita facendo le stesse cose: non andando a vivere da soli, non considerando altre Università se non quella vicino casa, non pensandosi al futuro se non abitando nello stesso quartiere, poi mettendo su famiglia e mandando i figli nelle scuole dov’erano andati loro, a portata di nonna, di vecchi amici, di rassicurante abitudine. In molti l’hanno fatto e, fino ad un anno fa, anche io.

Non ero felice.

E’ sempre difficile giudicare le abitudini di un popolo, ma più parlo con americani, inglesi, francesi, australiani, tedeschi (e aggiungete svariate altre nazionalità) più noto che questo attaccamento alla famiglia è tutto italiano. Ed è giusto e sbagliato al tempo stesso, perché inibisce certi slanci di indipendenza. Indipendenza dalle cose, e anche dalle persone, ma soprattutto dalle versioni datate di noi stessi. Quelle che circolano insieme alla gente che ci ha definito da una vita ma forse mai conosciuto e, inevitabilmente, ne resti impregnato.

Da quando sono qui  mi sento tanto provinciale al cospetto di questi viaggiatori poliglotti ed estroversi, capaci di abitare ovunque, fare amicizia con chiunque e sapere con un discreto margine di errore chi sono, per essersi così tanto sperimentati.

Al tempo stesso mi rendo conto di quanto io sia fortunata ad essere qui perché, anche se si esce perdenti da riflessioni come questa, l’importante è farle.

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